Affitti brevi comunicazioni online alla questura entro 24 ore.

L’obbligo di comunicare alla Questura le informazioni sulle persone alloggiate si estende anche agli affitti brevi. A stabilirlo le nuove norme contenute nella legge sicurezza (di conversione del decreto sicurezza).

In sostanza, saranno validi anche nel caso degli affitti brevi, gli stessi obblighi stabiliti dall’articolo 109 del Tulps per i gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricettive, «nonché i proprietari o gestori di case e di appartamenti per vacanze e gli affittacamere».

Gli obblighi riguarderanno i soggetti che affittano (o subaffittano) «immobili o parti di essi con contratti di durata inferiore a trenta giorni». Così recita l’«interpretazione autentica» contenuta nell’emendamento al recente Dl 113/2018 convertito in legge nei giorni scorsi. Il decreto stabilisce per le locazioni e per le sublocazioni “di durata inferiore a trenta giorni”, l’obbligo di comunicare alla Questura, entro le ventiquattr’ore successive all’arrivo, le generalità delle persone alloggiate. La comunicazione dovrà essere fatta online attraverso il sistema “Alloggiati Web”, la cui modulistica di accesso attraverso le questure verrà appositamente modificata. Quindi anche chi affitta o subaffitta una stanza di casa, anche per una sola notte, deve comunicare online i dati dell’inquilino.

La sanzione sarà quella prevista dall’articolo 17 del Tulps: arresto fino a tre mesi o ammenda fino a 206 euro.

Affitti in nero rischi e sanzioni

Niente più sanzioni per i proprietari dopo le segnalazioni degli affitti in nero da parte degli inquilini all’Agenzia delle Entrate. Dopo la sentenza della Suprema Corte non sarà più possibile avere, per l’inquilino, il contratto d’affitto 4 + 4 con canone più basso, ecco i motivi.

Gli inquilini denunciavano i proprietari per gli affitti in nero non per una violazione fiscale, ma per trarne a loro volta benefici, e le norme che disciplinano le sanzioni inflitte ai proprietari sono state riviste con la sentenza della Corte Costituzionale numero 50 del 2014. Il decreto in questione prevede che l’inquilino possa denunciare il proprietario quando questi affitti in nero il proprio immobile in uno dei seguenti casi:

1) quando registra un contratto di comodato gratuito;

2) quando registra un canone di locazione inferiore a quello che in realtà l’inquilino paga;

3) quando il contratto non viene registrato entro 30 giorni dalla firma dello stesso.

Solo in uno di questi tre casi l’inquilino può denunciare il proprietario per l’affitto in nero, e le sanzioni per il proprietario sono l’obbligo di stipulare un contratto di una durata di quattro anni rinnovabile per altri quattro con un canone di locazione, pari al triplo della rendita catastale e dal secondo anno un adeguamento ISTAT del 75% (una cifra molto bassa rispetto ai canoni di locazione pagati abitualmente).

Con la sentenza della Corte Costituzionale si annullano tutti i contratti stipulati in tale modo dopo il 6 giugno del 2011 a seguito di denuncia dell’inquilino per affitto in nero. Sono stati annullati circa 500mila contratti, ma la paura più grande ora è, per gli inquilini che hanno usufruito di tali contratti, che potrebbero vedersi chiedere dal proprietario un risarcimento per essere stato costretto ad affittare per oltre due anni il proprio immobile ad un prezzo molto inferiore a quello di mercato dopo la denuncia dell’inquilino per affitto in nero.

Animali in condominio cosa c’è da sapere

A disciplinare la presenza degli animali negli immobili condominiali, ci ha pensato la legge n. 220 dell’11 dicembre 2012, che ha apportato rilevanti “Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”.
L’art 6 lettera b) di questa legge aggiunge infatti all’art. 1138 del codice civile il seguente comma: “Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici”.
Sdoganata quindi la presenza degli animali in condominio, anche se con dei limiti. Perché se da una parte la legge permette di detenere animali anche all’interno degli appartamenti condominiali, non vuol dire che chi decide di non averne deve subire le conseguenze di una scelta altrui se si superano certi limiti.

Il fatto che ci sia una legge a impedire a un regolamento condominiale la possibilità di vietare la detenzione o il possesso di animali domestici nella proprietà esclusive dei condomini, rende nullo qualsiasi regolamento contrario alla disposizione dell’art 1138 c.c. Non solo, il singolo condomino a cui venisse vietato di tenere in casa un animale in virtù di una delibera assembleare può ricorrere al Giudice di pace entro 30 giorni dalla data in cui è stata emessa o da quella in cui il soggetto ha ricevuto il verbale. Il ricorso a cui deve essere allegata la delibera assembleare che si desidera contestare ed eventuali sentenze a favore, deve documentare il buono stato di salute dell’animale, tramite l’allegazione di certificati medici veterinari.

Ora, se il regolamento non può vietare al proprietario di un appartamento condominiale di tenere un animale da compagnia, questo non significa che si può fare ciò che si vuole anche negli spazi comuni. L’art 1102 c.c prevede infatti che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”. Nessun divieto quindi per chi vuole dare da mangiare ai randagi mettendo le ciotole in un angolo del portico o del cortile condominiale, a patto che tenga questo spazio sempre pulito e che gli animali non rappresentino un pericolo per gli altri condomini. Occorre infatti considerare in questo caso che, l’assemblea condominiale può vietare di dare da mangiare ai randagi per motivi di salubrità, sicurezza e igiene. Per questo è opportuno, nel rispetto degli altri condomini, far indossare la museruola al proprio cane o mettere il gatto nel trasportino, nel momento in cui, uscendo dall’appartamento, ci si muove con gli animali in uno spazio comune del condominio.

Sempre il relazione agli animali randagi, se è vero che la legge non vieta di poter dare loro da mangiare negli spazi condominiali, purché si adottino le suddette accortezze di ordine e pulizia, può farlo il regolamento di sicurezza pubblica o un’ordinanza del Sindaco. In questo caso infatti, a condizione che vi siano interessi pubblici prevalenti da tutelare, come la sicurezza delle persone e la salute pubblica, il Comune può vietare di dare da mangiare agli animali randagi.

Sulle modalità con cui sarebbe opportuno detenere animali all’interno di un appartamento condominiale si è pronunciata l’ordinanza penale della Cassazione n. 22785/2013. Condannato per il reato di cui all’art. 659 c.p. “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone”, l’imputato ricorre alla corte di legittimità. L’impugnazione però viene dichiarata inammissibile dagli Ermellini che, riconoscendo la coerenza logica argomentativa del giudice di merito e l’attendibilità delle testimonianze dell’amministratore e dei singoli proprietari ha condiviso il fatto che l’imputato abbia volontariamente e con coscienza omesso “ospitando all’interno del suo appartamento ben quattro cani, l’adozione delle dovute cautele al fine di non recare disturbo alla quiete pubblica e al riposto delle persone, nella specie gli altri condomini, con i rumori provocati dagli animali ospitati nella sua abitazione, anche in orari notturni.” Insomma, si rischia la condanna penale se non si adottano le dovute cautele atte a impedire che gli animali nell’appartamento rechino disturbo a tutti gli altri condomini.

Per l’inquilino il discorso degli animali in condominio cambia. Il proprietario dell’appartamento concesso in locazione infatti può vietare al suo inquilino di detenere animali in casa. Il divieto in questo caso però deve essere indicato specificamente nel contratto di locazione che è regolare e valido se registrato. Nessun divieto infatti per l’inquilino con cui viene stipulato un contratto di locazione “in nero”.

Chiarito che occorre una certa tolleranza nei confronti di chi ha un animale all’interno del proprio appartamento, ci sono però dei limiti che non devono essere travalicati neppure dal proprietario, nel rispetto degli altri condomini. Il codice civile infatti, all’art. 844, dedicato alle immissioni, prevede che i condomini abbiano il diritto opporsi a tutte quelle propagazioni, compreso quindi il rumore e l’odore provocato dall’animale, solo se superano la normale tollerabilità. Non ci si può lamentare quindi se ad esempio il cane detenuto all’interno dell’appartamento condominiale abbaia solo quando il padrone rientra dal lavoro o quando qualcuno passa davanti al portone di casa. In questo caso, infatti, il rumore provocato dall’animale è da considerare come rientrante nei limiti della “normale tollerabilità”. Solo se la frequenza e il volume del rumore provocato dall’animale superano questa soglia, così come l’odore derivante dalle pessime condizioni di cura dello stesso risulta insopportabile, previo accertamento di un tecnico della ATS locale, è possibile procedere civilmente per chiedere l’inibitoria della condotta e l’eventuale risarcimento del danno.

Bonus asilo nido sale fino a 1.500 euro

Ricordiamo che il bonus asilo nido è un’agevolazione con la quale lo Stato eroga fino a mille euro per pagare le rette dell’asilo nido pubblico o privato dei bambini, ma può essere utilizzato anche per l’assistenza domiciliare in caso di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie.

Secondo l’emendamento l’assegno dovrebbe salire da mille a 1.500 euro all’anno, per il triennio 2019 al 2021. Per poi tornare ad essere fissato a quota mille euro dall’anno 2022. Ora l’emendamento dovrà essere approvato in commissione Bilancio alla Camera dove si sta esaminando il testo della prossima manovra.

I fondi vengono spalmati in 11 rate mensili di pari importo (ora da 90,91 euro, ma con l’aumento per il triennio 2019, 2020 e 2021 si arriverebbe a 136,36 euro) per ogni retta pagata e documentata.

Per l’assistenza presso la propria abitazione, invece, il bonus è riconosciuto a bambini sotto i tre anni affetti da gravi patologie croniche. La somma di 1.000 euro che, grazie all’emendamento salirebbe a 1.500 euro, viene erogata in un’unica soluzione direttamente al genitore richiedente. Destinatari del bonus il genitore di un minore nato o adottato dal 1° gennaio 2016, residente in Italia, con cittadinanza italiana o comunitaria.
Sono beneficiari anche gli extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo o di una delle carte di soggiorno per familiari extracomunitari e per i cittadini stranieri con status di rifugiato politico o di protezione sussidiaria.

Canone Rai gratuito per le scuole

Ricordiamo che il canone è un abbonamento alla televisione dovuto da chiunque abbia un apparecchio televisivo, viene pagato una sola volta all’anno e una sola volta a famiglia, a condizione che i familiari abbiano la residenza nella stessa abitazione.

Dell’esenzione beneficiano le scuole materne statali e non statali, le scuole elementari statali o parificate quelle secondarie statali o pareggiate, nonché legalmente riconosciute.

In caso di accorpamenti o cessioni di apparecchi o chiusura scuole servirà richiedere l’annullamento della licenza e comunicare la destinazione dell’apparecchio.

Le scuole non statali sono soggette al pagamento di una tassa annuale, equivalente a 0,70 euro per la detenzione di apparecchi radio; 4,13 euro per la detenzione di apparecchi televisivi.

Il canone Rai è gratuito per le scuole. Ovviamente l’esenzione si avrà nel caso in cui lo scopo dell’utilizzo delle tv o delle radio sarà esclusivamente didattico.

Canone Rai importo ribassato dal 2019

Il costo dell’abbonamento verrà ridotto a 90 euro per il 2019 e per gli anni venire.

Gli abbonati dovranno dunque pagare, nella bolletta dell’elettricità, 10 rate da 9 euro ciascuna: è quanto stabilito nella legge di Bilancio 2019.

Solo per chi paga il cosiddetto canone speciale, nei casi in cui la televisione sia detenuta in un locale pubblico, ed in ulteriori casi particolari, l’imposta non è addebitata nella bolletta.

Se sei in affitto e la televisione è del proprietario della casa, il canone ti viene comunque addebitato in bolletta se il contratto di fornitura dell’energia elettrica è intestato a te e hai la residenza nell’immobile in questione. Invece se il contratto della luce è intestato al locatore, devi versare il canone con modello F24.

Se non ricevi il canone in bolletta e sei obbligato al pagamento, per evitare le sanzioni devi dunque saldarlo tramite modello F24. Il modello deve essere compilato indicando i codici:

 

  • TVRI, se si è già titolari di un abbonamento Rai e si deve pagare per il consueto rinnovo annuale;
  • TVNA, se si deve saldare un nuovo abbonamento.

L’importo dell’abbonamento, come già esposto, è pari a 90 euro; l’anno da indicare nel modello è quello corrente, a cui si riferisce l’abbonamento.

Se la stessa famiglia anagrafica detiene più apparecchi, il canone si paga una volta sola, indipendentemente dal numero di abitazioni in cui sono presenti gli apparecchi, a condizione che i familiari abbiano la residenza nella stessa abitazione.

In parole semplici, si paga il canone una volta sola:

  • se nella stessa abitazione ci sono 2 televisioni o più;
  • se i coniugi  hanno la residenza nella stessa casa, ma uno dei due possiede un’altra casa dove è attiva la luce; in quest’ipotesi si paga solo il canone presso la casa di residenza.

Naturalmente, se sei esonerato dal pagamento del canone non è necessario che effettui alcun pagamento, né in bolletta né tramite F24.

Sei esonerato se:

  • all’interno della tua famiglia anagrafica qualcuno paga già il canone;
  • hai compiuto 75 anni di età, il reddito familiare non supera 8mila euro annui ed è stata presentata l’apposita dichiarazione sostitutiva: l’esenzione è valida anche se a possedere i requisiti è un componente della famiglia anagrafica;
  • l’esonero è disposto da convenzioni internazionali ed è stata presentata l’apposita dichiarazione sostitutiva: l’esenzione è valida anche se a possedere i requisiti è un componente della famiglia anagrafica;
  • è stata presentata la dichiarazione sostitutiva di non detenzione di apparecchi televisivi, anche da parte di un componente della famiglia anagrafica.

Altre categorie di soggetti esentati dal pagamento del canone Rai sono :

  • Militari delle Forza Armate Italiane: ospedali militari, case del soldato e sala convengo dei militari delle Forze Armate.
  • Rivenditori e negozi in cui vengono riparate TV.

Non deve pagare il canone Rai chi non possiede una televisione. Il pc o il tablet sui quali si vede la televisione in streaming non sono equiparabili alla televisione.

Se rientri in uno dei casi di esenzione, ma hai intestata un’utenza elettrica ,puoi chiedere l’esonero dal pagamento del canone compilando la dichiarazione sostitutiva predisposta dall’Agenzia delle Entrate.

Puoi inviare il modulo direttamente online sul sito dell’Agenzia delle Entrate, oppure tramite pec (posta elettronica certificata), all’indirizzo cp22.sat@postacertificata.rai.it, o tramite raccomandata A/R all’indirizzo: Agenzia delle Entrate Ufficio di Torino 1, S.A.T- Sportello abbonamenti tv- Casella Postale 22-10121 Torino.

La domanda deve essere presentata dall’intestatario dell’utenza elettrica.
Le scadenze per presentare la dichiarazione di esenzione sono:

  • 31 gennaio: chi presenta la dichiarazione entro questa data è esonerato dal pagamento per l’intero anno;
  • sino al 30 giugno: chi presenta la dichiarazione entro questa data è esonerato dal pagamento per il secondo semestre (luglio-dicembre).

Se continui a non detenere l’apparecchio televisivo negli anni successivi, devi presentare la dichiarazione sostitutiva ogni anno.

Figli si può dare il doppio cognome

Con la sentenza della Corte costituzionale numero 286/2016 si è previsto che al cognome del padre si possa affiancare anche quello della madre.
La sentenza della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme del codice civile che non prevedevano questa opportunità, non è in realtà stata seguita da alcuna legge specifica sull’argomento.
A tale carenza ha però posto rimedio il Ministero dell’interno che, con la circolare numero 1/2017 ha sollecitato i sindaci a fornire le direttive necessarie ai loro uffici di stato civile con il fine di garantire l’applicazione dei principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale, invitandoli ad accogliere le richieste dei genitori che intendono attribuire ai figli il doppio cognome.

Il doppio cognome può essere attribuito, naturalmente, anche ai figli di coppie non sposate e ai figli adottivi.

La questione, però, non è semplice come sembra e nel corso degli anni si sono posti alcuni interrogativi circa l’esatta portata della nuova possibilità.
Dato per assodato che il cognome paterno non può essere eliminato, ci si è chiesti, ad esempio, se la madre possa dare al figlio il proprio cognome, aggiungendolo a quello del padre, anche senza il consenso di quest’ultimo. A tale interrogativo, di recente, ha dato risposta il Tar del Lazio, con la sentenza numero 11410/2018.
Il Tribunale Amministrativo ha in particolare affermato che la richiesta di modifica del cognome del figlio minore è un atto civile che i genitori possono presentare solo nell’esercizio della rappresentanza legale, con il consenso congiunto, salvo solo il caso in cui la madre o il padre sia stato privato della potestà genitoriale.
Se non vi è accordo sul doppio cognome, quindi, lo stesso non può essere attribuito dall’ufficio, ferma restando la possibilità per ciascuno dei genitori di ricorrere senza formalità al giudice civile.
Se, invece, l’accordo c’è, basta renderlo palese all’ufficiale di stato civile, che registrerà il nome del figlio con i due cognomi.
Non sono necessari particolari documenti e la volontà può essere manifestata oralmente.

In ipotesi di attribuzione del doppio cognome, l’ordine non può essere invertito ma è prestabilito: il cognome della madre si aggiunge in coda a quello del padre.

Resta comunque ferma l’ipotesi in cui il bambino sia figlio di una coppia non sposata e il padre non lo riconosca. In tal caso, egli non potrà acquisire che il cognome della madre.

Furto in appartamento: il condominio è tenuto a risarcire se l’impianto di videosorveglianza non è adeguato o non funziona e se ci sono i ponteggi per i lavori di ristrutturazione

Furto in appartamento: se la colpa è della videosorveglianza

Se il condominio ha deliberato l’installazione di un sistema di videosorveglianza e questo dovesse essere guasto o non adeguato a prevenire i furti (si pensi al caso in cui l’angolo di visuale della telecamera non è in grado di percepire l’arrivo dei ladri), il condominio può essere ritenuto responsabile per il furto in appartamento o nel negozio al piano terra. Questo significa che il condomino derubato può chiedere il risarcimento dei danni subiti all’amministratore il quale, previa autorizzazione dell’assemblea, dovrà liquidare l’indennizzo. A dirlo è il tribunale di Latina, secondo cui il condominio risponde delle carenze del sistema di sorveglianza se hanno facilitato il furto in uno dei locali. Non rileva il fatto che l’impianto sia stato concesso in comodato al condominio da una società incaricata del sistema di allarme. Se poi risulta che la società terza non ha svolto a dovere i propri compiti, sarà possibile un’azione di rivalsa.

Furto in appartamento: se la colpa è del portone di ingresso

Lo stesso principio si può applicare per qualsiasi altro servizio condominiale non funzionante come per il caso del portone d’ingresso. Si pensi ad un palazzo al cui interno si possa accedere facilmente per via del guasto alla serratura che consente l’ingresso nell’atrio comune e, di lì, alle scale e agli appartamenti. L’amministratore, in quanto supervisore di ogni parte comune dell’edificio e della sicurezza dello stabile, è tenuto ad attivarsi immediatamente, con o senza le segnalazioni da parte dei proprietari. Se non lo fa è responsabile in prima persona. Chiaramente, le segnalazioni ricevute in passato dagli interessati aggravano la sua posizione. Seguendo la stessa linea interpretativa sposata dal tribunale di Latina, resta tuttavia la corresponsabilità del condominio che ha, non provvedendo alla riparazione del portone, agevolato l’ingresso dei malviventi nelle unità immobiliari.

Furto in appartamento: se la colpa è dei ponteggi

Se, su una facciata qualsiasi del tuo palazzo, sono stati installati dei ponteggi necessari all’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione, l’ingresso dei ladri potrebbe essere stato agevolato proprio da tale struttura che conduce fino alle finestre degli appartamenti e dall’assenza di un adeguato sistema di allarme.

Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza e, da ultimo, la Cassazione con una recente ordinanza. Ma chi è responsabile: la ditta edile o il condominio?

Innanzitutto, potrebbe essere configurabile la responsabilità della società esecutrice dei lavori. All’appaltatore può essere, in particolare, contestata l’omessa adozione delle cautele necessarie per impedire l’uso anomalo dei ponteggi se, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia ha agevolato l’accesso ai ladri e il furto nell’appartamento.

Ma si può parlare anche di una responsabilità del condominio. In base al nostro codice civile difatti chi ha il beneficio dell’opera dei sottoposti ne sopporta anche i rischi. La colpa del condominio potrebbe essere stata nell’aver esonerato la ditta appaltatrice dall’installazione di un impianto di allarme collegato ai ponteggi, da attivare durante la notte (precauzione alla quale, di solito, le società fanno corrispondere un aumento del prezzo per i lavori).

Il condominio poi potrebbe essere considerato responsabile per aver scelto un appaltatore inadeguato per l’esecuzione dell’opera, oppure quando l’impresa è stata una semplice esecutrice degli ordini del committente; oppure, ancora, se l’amministratore abbia omesso di sorvegliare l’operato dell’impresa appaltatrice.

Il Comune gonfia la TARI Ecco come scoprirlo ed ottenere il rimborso

La tassa sui rifiuti (TARI) è il tributo destinato a finanziare i costi relativi al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte suscettibili di produrre i rifiuti medesimi.

La TARI è stata introdotta, a decorrere dal 2014, dalla legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014), quale tributo facente parte, insieme all’IMU e alla TASI, della IUC. La TARI ha sostituito la TARES, che è stata in vigore per il solo 2013 e che, a sua volta, aveva preso il posto di tutti i precedenti prelievi relativi alla gestione dei rifiuti urbani, sia di natura patrimoniale sia di natura tributaria (TARSU, TIA1, TIA2).

Negli ultimi cinque anni almeno, diversi Comuni avrebbero sbagliato il calcolo della Tari: un errore nel computo della quota variabile del tributo che ha fatto lievitare a dismisura il prelievo, a spese di migliaia di famiglie.

Sulla base di quanto è emerso, i contribuenti hanno pagato una tassa rifiuti molto più alta del dovuto. Questa quota, infatti, andrebbe calcolata una sola volta sull’insieme di casa e pertinenze immobiliari (ovvero posti auto, cantine, soffitte, box), tenuto conto del numero dei familiari. L’esistenza di svariate pertinenze, infatti, non accresce la quantità d’immondizia prodotta dal nucleo familiare. I Comuni accusati di averla maggiorata, invece, l’avrebbero applicata tante volte quante sono le pertinenze dell’abitazione: in questo modo il balzello è così stato gonfiato, in alcuni casi fino a raddoppiare.

Il contribuente, dopo aver attentamente verificato la propria posizione già nell’avviso di pagamento, dovrebbe quindi chiedere al Comune il rimborso di quanto indebitamente pagato o la compensazione sulla bolletta dell’anno prossimo. L’operazione dovrebbe comunque passare attraverso una rideterminazione complessiva delle tariffe, riguardante l’intera platea delle utenze domestiche: quelle con pertinenze, che sono state penalizzate e quelle senza pertinenze. Ci sono comunque cinque anni di tempo dal versamento per chiedere il rimborso, che il Comune dovrebbe effettuare entro 180 giorni dalla presentazione dell’istanza. Ovviamente l’eventuale riscontro negativo ovvero il silenzio-rifiuto espone l’ente ad un contenzioso che potrebbe rivelarsi controproducente, alla luce della recente interpretazione ministeriale.

Sono pochi i Comuni che hanno espressamente previsto nei loro regolamenti Tari la non applicabilità della quota variabile alle pertinenze dell’utenza domestica. Si dovrebbero quindi leggere attentamente gli avvisi di pagamento che l’ente ha inviato a tutti i contribuenti (la Tari riscossa normalmente su liquidazione d’ufficio) e verificare, in caso dipertinenze, che la quota variabile applicata risulti pari a zero euro.

In genere l’avviso di pagamento della Tari contiene il riepilogo dell’importo da pagare, le istruzioni per il versamento (scadenza rate e codice tributo) nonch il dettaglio delle somme. in questa parte che l’ente indica le unit immobiliari (con i dati catastali: foglio, particella, sub), la superficie tassata, il numero degli occupanti e la quota fissa e variabile distinta per ogni unit immobiliare. La quota variabile deve essere presente solo per l’abitazione, non anche per le eventuali pertinenze.

L’articolo 1 comma 164 della legge 296/2006 (finanziaria 2007) stabilisce che il rimborso delle somme versate e non dovute deve essere richiesto dal contribuente entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui stato accertato il diritto alla restituzione. La stessa norma impone inoltre all’ente di effettuare il rimborso entro centottanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza, ma non da escludere un eventuale silenzio-rifiuto da parte dell’ente.

Il contribuente, in caso di diniego espresso al rimborso, ha 60 giorni di tempo per proporre ricorso alla commissione tributaria provinciale territorialmente competente. Nel caso di silenzio-rifiuto – che si forma dopo 90 giorni dalla presentazione dell’istanza (articolo 21 Dlgs 546/92), ma consigliabile attendere 180 giorni previsti dalla norma sui tributi locali (comma 164 legge 296/06) – il contribuente deve proporre ricorso entro cinque anni (termine di prescrizione del diritto secondo la giurisprudenza pi recente).

L’Associazione, per chi fosse interessato, provvederà ad effettuare un’istanza di accesso e diffida tramite raccomandata o Pec, per conoscere i criteri e le modalità di calcolo della tassa sui rifiuti applicata dal Comune sul proprio territorio.

Immobili collabenti non applicabili le agevolazioni prima casa

L’agevolazione prima casa non è applicabile agli immobili classificati come collabenti, con attribuzione della categoria F/2. Lo ha evidenziato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 357 del 30 agosto 2019, con cui ha specificato come infatti nel caso di inidoneità assoluta ed oggettiva all’utilizzo dell’immobile abitativo che si intende acquistare, il contribuente non è legittimato a fruire delle agevolazioni “prima casa”, poiché l’immobile in questione non può essere equiparato neanche ad un immobile in corso di costruzione.

L’Agenzia delle Entrate ha emanato la risposta a interpello n. 357 del 30 agosto 2019 in tema di applicabilità anche ad immobili classificati come “collabenti” delle agevolazioni fiscali previste per la prima casa.

L’art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 dispone espressamente l’applicazione dell’aliquota agevolata del 2% nell’ipotesi in cui vengano trasferite case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano precise condizioni. Deve trattarsi, pertanto, di unità immobiliari che, sulla base di criteri oggettivi, risultino astrattamente idonee al concreto soddisfacimento di esigenze abitative. Per criteri di uniformità di applicazione, e per assicurare l’obiettiva valutazione del presupposto oggettivo dell’agevolazione, si ritengono “case di abitazione” i fabbricati censiti nel Catasto dei Fabbricati nella tipologia abitativa.
Invece, l’attribuzione della categoria F/2 – Unità Collabenti è riferita ai fabbricati totalmente o parzialmente inagibili, caratterizzati da un notevole livello di degrado che ne determina l’incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio. Lo stato di fatto di tali costruzioni non consente l’iscrizione in altre categorie catastali. Si tratta di una classificazione comunque durevole del bene immobile, mentre le classificazioni F/3 e F/4, relative ai fabbricati in corso di costruzione e in corso di definizione, sono necessariamente provvisorie, per un periodo che va dai 6 ai 12 mesi.

Infatti, l’agevolazione “prima casa” compete ai fabbricati in corso di costruzione, categoria catastale F/3, destinati ad abitazione, ossia strutturalmente concepiti per uso abitativo; non è, invece, richiesto che gli stessi siano già idonei a detto uso al momento dell’acquisto.
Pertanto nel caso di inidoneità assoluta ed oggettiva all’utilizzo dell’immobile abitativo che si intende acquistare, il contribuente non è legittimato a fruire delle agevolazioni “prima casa”, poiché l’immobile in questione non può essere equiparato ad un immobile in corso di costruzione.