Etichette per alimenti: cosa impone la legge?

Il crescente interesse del consumatore finale nella fase d’acquisto dei prodotti alimentari salutistici ha reso molto importante regolamentare l’informazione sugli alimenti che viene trasferita mediante etichettatura. L’etichetta, pertanto, assume un ruolo strategico in quanto informa il consumatore sulle caratteristiche del prodotto consentendogli di scegliere quello che maggiormente risponde alle proprie esigenze: essa rappresenta, quindi, una sorta di carta d’identità del bene prodotto.

Deve di conseguenza ritenersi di estrema importanza il D.lgs. 15 dicembre 2017 n. 231, che riguarda la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del medesimo regolamento (UE) n. 1169/2011 e della direttiva 2011/91/UE, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12 agosto 2016, n. 170 «Legge di delegazione europea 2015».

Con il termine “etichettatura” si fa riferimento a tutte quelle informazioni che riguardano il contenuto di un determinato alimento confezionato, come ad esempio, l’elenco degli ingredienti, la denominazione o la data di scadenza. L’etichetta (ma anche il contrassegno (marcatura CE)) consapevolizza il consumatore sui requisiti delle merci in generale esercitando un’azione esplicativa a vantaggio della tutela qualitativa, ma anche igienico-sanitaria. L’asimmetria informativa tra consumatori e produttori è quindi ridimensionata mediante una riorganizzazione della normativa riguardante le informazioni offerte al pubblico.

La prima disciplina dell’etichettatura degli alimenti può essere ricollegata al D. lgs n. 109/1992 (G.U.R.I. GU Serie Generale n.39 del 17-2-1992 – Suppl. Ordinario n. 31), la quale è stata integrata, negli anni, con varie direttive e regolamenti a livello europeo. Dopo svariati anni di confronti si è giunti alla definizione della nuova normativa. Difatti, dal 13 dicembre 2016 è diventato completamente applicabile, dopo l’operatività dell’art. 9, par. 1, lett. l) (obbligo di dichiarazione nutrizionale), il Regolamento (UE) n. 1169/2011 (G.U.U.E. GU L 304 del 22.11.2011) relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori che ha modificato il Regolamento (CE) n. 1924/2006, il quale fornisce disposizioni in merito alle indicazioni nutrizionali e sulla salute indicate sui prodotti alimentari, e il Regolamento (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, che disciplina l’aggiunta di vitamine e minerali e di talune altre sostanze agli alimenti.

I fattori più importanti che hanno spinto a regolamentare nuovamente la materia possono riassumersi in 3 punti:

– la volontà unanime di realizzare una normativa comune a livello europeo, da applicare in tutti gli Stati Membri;

– la richiesta dei produttori di semplificare e armonizzazione la struttura normativa;

– la tutela della salute dei consumatori.

Tale regolamento, ritenuto di estrema importanza per i consumatori, ma soprattutto per tutte le aziende europee del settore agroalimentare, ha inteso armonizzare le varie normative nazionali, rendendo obsolete le prescrizioni della precedente Direttiva 2000/13/CE che, a causa della continua evoluzione dei mercati, richiedeva costanti aggiornamenti.

La normativa che disciplina il tema dell’etichettatura impone, in primis, che non siano riportate informazioni fuorvianti o, comunque, che inducano il consumatore all’errore. Si richiede, inoltre, il rispetto dei principi della correttezza, della trasparenza e della leggibilità per preservare gli interessi degli acquirenti, ma anche degli operatori commerciali. È, quindi, necessario rendere edotti i consumatori circa la presenza delle sostanze che possono provocare delle intolleranze, delle allergie o altre ripercussioni negative sulla salute.

Il Capo IV del regolamento è dedicato interamente alle informazioni obbligatorie che, tranne deroghe ed eccezioni, devono essere apposte sulla confezione degli alimenti; esse sono:

– la denominazione dell’alimento;

– l’elenco degli ingredienti;

– qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico elencato nell’allegato II o derivato da una sostanza o un prodotto elencato in detto allegato che provochi allergie o intolleranze usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata;

– la quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti;

– la quantità netta dell’alimento;

– il termine minimo di conservazione o la data di scadenza;

– le condizioni particolari di conservazione e/o le condizioni d’impiego;

– il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare;

– il paese d’origine o il luogo di provenienza;

– le istruzioni per l’uso, per i casi in cui la loro omissione renderebbe difficile un uso adeguato dell’alimento;

– per le bevande che contengono più di 1,2 % di alcol in volume, il titolo alcolometrico volumico effettivo;

– una dichiarazione nutrizionale.

Nell’elaborare il contenuto informativo delle etichette, gli operatori del settore alimentare devono ispirarsi ad alcuni principi generali, ovvero:

– chiarezza: le indicazioni devono risultare facilmente comprensibili per un consumatore medio e non devono ingenerare dubbi sulle caratteristiche del prodotto acquistato; sono, pertanto, da evitare codici o altri elementi che non siano di immediata interpretazione e comprensione (es. il numero di iscrizione al REA del Registro Imprese della CCIAA in sostituzione della sede dello stabilimento di produzione);

– leggibilità: le informazioni devono essere riportate in caratteri di dimensioni tali da poter essere letti senza troppa difficoltà; a tale scopo, per alcune tipologie di informazioni (ad esempio la quantità nominale) il legislatore ha definito la dimensione minima dei caratteri al di sotto dei quali non è possibile scendere;

– facilità di lettura: le indicazioni di seguito elencate devono figurare nello stesso campo visivo, in modo da essere facilmente leggibili in una sola occhiata; gli operatori, inoltre, non devono riportare informazioni in punti nascosti, di difficile lettura o rimovibili (es. sigillo di confezionamento);

– indelebilità: gli operatori devono garantire l’indelebilità delle informazioni riportate in etichetta, affinché esse siano leggibili per tutta la vita commerciale del prodotto.

Le indicazioni riportate sull’etichetta dei prodotti alimentari destinati alla commercializzazione sul mercato nazionale devono essere riportate in lingua italiana. È consentito l’utilizzo di altre lingue solo se:

  • il termine è diventato di uso talmente corrente e generalizzato da non richiedere traduzioni (es.: Croissant utilizzato come denominazione di un prodotto da forno);
  • le menzioni originali non hanno corrispondenti nei termini italiani (es. Brandy).

Possono essere presenti anche altre lingue ufficiali della Unione Europea, ma in aggiunta e non in sostituzione alla lingua italiana.

Ai fini dell’etichettatura è necessario preliminarmente distinguere in merito alla presentazione e alla vendita al pubblico di prodotti alimentari:

  • prodotti preconfezionati (o preimballati): sono quei prodotti alimentari confezionati nello stabilimento di confezionamento e, in assenza dell’acquirente, avvolti, totalmente o in parte, in un imballaggio che deve essere mantenuto integro fino al momento del consumo;
  • prodotti preincartati (o preconfezionati per la vendita immediata): sono quei prodotti alimentari confezionati sul punto vendita al momento della richiesta del cliente o antecedentemente, ma ai fini della vendita immediata nello stesso locale dove sono stati confezionati (pane, carne fresca, formaggi e salumi al taglio, ecc.);
  • prodotti sfusi: sono quei prodotti alimentari sui quali non è possibile apporre l’etichetta in quanto privi della confezione (frutta, ortaggi freschi, ecc.).

Una delle novità principali che ha aumentato la trasparenza nei confronti dei potenziali acquirenti è l’obbligo, se pur con varie eccezioni, dell’apposizione in etichetta della dichiarazione nutrizionale per i prodotti confezionati.

Tale imposizione vale solo per i prodotti alimentari “preimballati”, destinati alla vendita al consumatore finale ma anche a bar, esercizi pubblici, di ristorazione e catering, salva la possibilità per l’operatore di inoltrare a questi ultimi un documento che attesti il valore nutrizionale in alternativa all’etichettatura individuale dei pezzi.

Come stabilito dall’Unione Europea, la dichiarazione nutrizionale di un alimento fa riferimento alle informazioni sulla presenza di calorie e di alcune sostanze nutritive negli alimenti. La presentazione obbligatoria sull’imballaggio di informazioni sulle proprietà nutritive dovrebbe supportare azioni dietetiche in quanto parte delle politiche sanitarie pubbliche, che possono anche prevedere l’indicazione di raccomandazioni scientifiche nell’ambito dell’educazione nutrizionale per il pubblico e garantire scelte alimentari informate.

L’etichetta dovrà indicare:

  1. a) il valore energetico degli alimenti;
  2. b) la quantità di grassi, gli acidi grassi saturi, i carboidrati, gli zuccheri, le proteine e il sale espressi come quantità per 100g o per 100 ml o per porzione.

Oltre alle informazioni obbligatorie è possibile, in maniera non obbligatoria ma volontaria, aggiungere ulteriori informazioni anch’esse disciplinate dal Regolamento, come ad esempio gli elementi nutritivi di un elenco determinato. 

La norma che abroga il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n.  109, dopo aver inquadrato il campo d’applicazione, identifica subito la figura del cd. “soggetto responsabile”, ossia: l’operatore   del   settore alimentare di cui all’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento, con il cui nome o con la cui ragione sociale è commercializzato il prodotto o, se tale operatore non è stabilito   nell’Unione, l’importatore avente sede nel territorio dell’Unione; è, inoltre, considerato come “soggetto responsabile” l’OSA, il cui nome o la cui ragione sociale siano riportati in un marchio depositato o registrato.

Successivamente il testo normativo, da un lato, tratta la disciplina sanzionatoria per le violazioni del Regolamento n. 1169/2011 (articoli da 3 a 16), dall’altro, invece, (articoli da 17 a 24), introduce norme di adeguamento al Regolamento (UE) n. 1169/2011 (con relative sanzioni) inerenti l’indicazione del numero di lotto e l’etichettatura dei prodotti contenuti in distributori automatici e di quelli non preimballati.

Il nuovo decreto, quindi, stabilisce le sanzioni per la violazione delle disposizioni del Regolamento 1169/2011 riguardanti:

  • le pratiche leali di informazione (art. 3);
  • gli obblighi informativi da parte degli operatori del settore alimentare (OSA) (art. 4);
  • l’apposizione delle informazioni obbligatorie sugli alimenti preimballati (art. 5);
  • le modalità di espressione, posizionamento e presentazione delle indicazioni obbligatorie (art. 6);
  • la vendita a distanza (art. 7).

La norma poi si focalizza sulle violazioni delle disposizioni specifiche sulle indicazioni obbligatorie in etichetta ed in particolare fissa sanzioni per quanto riguarda:

  • la denominazione dell’alimento (art. 8);
  • l’elenco degli ingredienti (art. 9);
  • i requisiti nell’indicazione degli allergeni (art. 10);
  • l’indicazione quantitativa degli ingredienti e l’indicazione della quantità netta (art. 11);
  • il termine minimo di conservazione, la data di scadenza e la data di congelamento (art. 12);
  • il paese di origine o luogo di provenienza (art. 13);
  • il titolo alcolometrico (art. 14);
  • le dichiarazioni nutrizionali (art. 15).

Vengono, in seguito, stabilite le sanzioni per le violazioni in materia di informazioni volontarie sugli alimenti (art. 16). Il decreto, infine, apporta un adeguamento al Regolamento (UE) n. 1169/2011 stabilendo ulteriori obblighi e relative sanzioni in caso di mancato rispetto della normativa sui seguenti aspetti dell’etichettatura e della vendita di alimenti:

  • diciture o marche che consentono di identificare la partita a cui appartiene una derrata alimentare (art. 17);
  • vendita di alimenti non preimballati tramite distributori automatici o locali automatizzati (art. 18);
  • vendita di alimenti non preimballati (art. 19);
  • menzioni che devono essere riportate sui prodotti non destinati al consumatore (art. 20).

Le disposizioni sanzionatorie colpiscono due differenti tipologie di violazioni:

– mancata indicazione delle informazioni obbligatorie;

– indicazione delle informazioni (sia obbligatorie che facoltative) con modalità difformi rispetto a quelle prescritte dal Regolamento 1169/2011.

Gli importi, variabili ovviamente tenuto conto della gravità delle singole infrazioni, vanno da un minimo di 500 euro fino ad un massimo di 40 mila euro.

Di notevole rilievo è, infine, la disciplina sanzionatoria per la violazione delle pratiche leali di informazione, la quale comporta per l’OSA, salvo che il fatto costituisca reato, l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 3.000 euro a 24.000 euro (es. erronea indicazione del produttore/confezionatore contoterzista, anziché il soggetto con il cui nome o marchio il prodotto viene commercializzato). 

Autorità competente, riduzioni ed eccezioni

L’autorità competente all’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal D.lgs. 231/2007 è il Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressioni frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Per l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni si applica la procedura prevista dalla Legge 689/1981, così come la procedura prevista dal D.L. 91/2014. Innanzitutto con tale procedura si riconosce una riduzione del 30% della sanzione in caso di pagamento entro 5 giorni. Altresì, in caso di primo accertamento di una sanzione “sanabile”, si farà ricorso all’istituto della diffida, quindi l’operatore potrà regolarizzare la non conformità entro il termine di 20 giorni dalla ricezione dell’atto di diffida.

Il D. lgs. 231/2017 prevede poi altri casi di riduzione o esclusione delle sanzioni. Infatti, nel caso in cui la violazione sia commessa da imprese aventi i parametri della microimpresa, la sanzione amministrativa è ridotta sino a un terzo. Non si applicano le sanzioni previste:

  • alle forniture di alimenti che presentino irregolarità di etichettatura – ma non riguardanti la data di scadenza o sostanze o prodotti che possono provocare allergie o intolleranze – se destinate ad organizzazioni senza scopo di lucro, per la successiva cessione gratuita a persone indigenti,
  • nel caso di immissione sul mercato di un alimento che sia corredato da adeguata rettifica scritta delle informazioni non conformi.
Etichetta d’origine: dal 2019 potrebbe decadere l’obbligo.

Un nuovo regolamento Ue, che sarebbe applicato da aprile 2019, potrebbe cancellare l’obbligo per le aziende produttrici di alcuni alimenti di indicare l’origine geografica della materia prima.

Sono recenti le leggi che hanno introdotto l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di pasta, riso, latte, formaggi e pomodoro, ma il loro destino è di essere invalidate a breve in quanto norme nazionali e quindi più deboli rispetto a quelle comunitarie. Un regolamento europeo, peraltro atteso almeno da quattro anni, le renderà del tutto inutili. La Commissione ha sottoposto il testo a una consultazione pubblica che si chiuderà il prossimo primo febbraio e il regolamento, che potrebbe entrare in vigore poche settimane più tardi, si applicherà dall’aprile 2019. Questo era già previsto da tutti i decreti introdotti nel 2017 dall’Italia: non appena Bruxelles approverà il testo comunitario, decadranno.

Tutto verte intorno all’origine dell’ingrediente primario: sarà obbligatorio indicarne l’origine se diversa da quella del prodotto finito.

La bozza elaborata a Bruxelles a prima vista non sembra discostarsi di molto dai decreti voluti dal ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, ma non è così. L’obbligo, infatti, non varrà per le indicazioni geografiche protette Dop e Igp ma soprattutto non si applicherà ai marchi registrati che, a parole o con segnali grafici, indicano già di per sé la provenienza del prodotto. Restano però le tutele previste dal regolamento 1169. Tutti i marchi che evocano italianità nel nome o nella grafica, ma che italiani non sono, dovranno comunque recare la precisazione che il prodotto non è made in Italy. Con una precisazione: l’origine del prodotto indica il Paese in cui l’alimento ha subito l’ultima trasformazione sostanziale. Nulla a che vedere con l’ingrediente primario.

Entro maggio 2019, in vigore nuovi limiti per l’acquisto degli alimenti privi di glutine.

Per le persone celiache, circa 200 mila nel nostro Paese, gli alimenti senza glutine non sono un capriccio o una moda ma l’unica cura possibile, quindi una terapia salvavita. Per questo hanno diritto ad accedervi gratuitamente, attraverso i buoni forniti dal Servizio sanitario nazionale, nei limiti dei tetti mensili fissati dal Ministero della Salute con il Decreto del 4 maggio 2006. Limiti, cioè importi, che presto dovrebbero cambiare in seguito all’entrata in vigore del nuovo Decreto sui «Limiti massimi di spesa per l’erogazione dei prodotti senza glutine», pubblicato in Gazzetta ufficiale a fine agosto (n. 199). Il condizionale è d’obbligo perché sulla vicenda è nato un «pasticcio» normativo sul quale le associazioni dei malati chiedono chiarimenti.

Il Decreto stabilisce che entro sei mesi, quindi entro fine febbraio 2019, dovrà essere aggiornato il registro nazionale degli alimenti, poi le Regioni avranno tre mesi di tempo per adeguarsi. Tuttavia, è stata diramata una circolare del Ministero della Salute in cui si stabilisce che: «A far data dal 12 settembre codeste Regioni per il tramite delle Aziende sanitarie locali, territorialmente competenti, sono tenute ad applicare i nuovi limiti mensili… Quanto alle norme transitorie, si rappresenta altresì che fino alla pubblicazione del registro nazionale degli alimenti senza glutine aggiornato occorre fare riferimento agli alimenti inclusi nel registro attualmente disponibile». Dura la presa di posizione dell’Associazione italiana celiachia.

Dice il presidente AIC , Giuseppe Di Fabio: «Gli annunci del ministro Grillo, lanciati su twitter nelle scorse settimane, di voler fare chiarezza sui nuovi tetti di spesa approvati con Decreto ministeriale il 10 agosto e di voler valutare quindi eventuali modifiche per non penalizzare i pazienti celiaci, sono rimasti lettera morta. Non solo — prosegue Di Fabio — il Ministero ha diffuso del tutto inaspettatamente una circolare confusa, immotivata e inutile che, ignorando le disposizioni di legge, ha anticipato i tempi di applicazione dei tetti di spesa ridotti senza rivedere preventivamente il Registro Nazionale, che elenca gli alimenti senza glutine erogabili a spese del Servizio Sanitario Nazionale. Il risultato? È caos nelle Regioni dove regna il “fai da te” con pazienti che ricevono trattamenti differenti. i pazienti, senza essere stati informati del repentino anticipo del taglio, scoprono di non avere più diritto alla stessa esenzione del mese precedente, mentre altri ricevono i buoni invariati per l’intero anno successivo e in alcuni casi sono gli esercenti, su indicazione delle loro ASL, a correggere i buoni dei pazienti. Ma stanno pagando anche gli operatori, quindi farmacisti, grande distribuzione e negozi, ignari della repentina, inattesa e retroattiva corsa all’applicazione dei tetti ridotti. Siamo profondamente delusi e indignati e ancora attendiamo la risposta del Ministero sulle ragioni di questa corsa a fare cassa, anticipando le scadenze previste dal decreto scritto, firmato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale». Il Ministero della Salute, da parte sua, fa sapere che «sono in arrivo chiarimenti».

Innanzitutto si riduce la cifra che gli adulti, in particolare gli ultrasessantenni, potranno spendere ogni mese per l’acquisto di pane, pasta e altri cibi senza glutine, in base al sesso e alle fasce di età (dalle attuali 4 si passa a 6); aumenta, invece, l’importo mensile nel primo anno di vita.

Il contributo può cambiare a seconda della residenza perché ogni Regione può decidere se aumentarlo o meno.

Il provvedimento di fine agosto apporta modifiche anche alla varietà dei prodotti senza glutine cui ha diritto chi soffre di celiachia, compresa la variante della dermatite erpetiforme. Si specifica, infatti, che il buono mensile a carico del Ssn può essere utilizzato per l’acquisto di «alimenti senza glutine specificamente formulati per celiaci», inclusi nel registro nazionale, che rientrano nelle seguenti categorie: pane e affini, prodotti da forno salati; pasta e affini; pizza e affini; piatti pronti a base di pasta; preparati e basi pronte per dolci, pane, pasta, pizza e affini; prodotti da forno e altri prodotti dolciari; cereali per la prima colazione. Restano gratuiti tutti quegli alimenti che rispondono alle esigenze degli stili di vita contemporanei prevalenti, come i primi piatti pronti o semipronti».